CRM, don’t call me software! Parte #1

CRM, don’t call me software! Parte #1

Customer Relationship Management

Il CRM non è un Software

O meglio, lo è, ma in seconda battuta

Per inaugurare questa rubrica (magazine fa più figo) di cose da fare e da non fare nel digital, ho deciso di parlare di CRM, che come ben sapete è il simpatico acronimo di Customer Relationship Management.
Al riguardo ci sarebbero tantissime cose da dire, con profondità ed ampiezza di gamma molto diverse, ma per iniziare vorrei mettere in chiaro alcuni punti…

Il CRM non è un software! 

Ok, l’ho detto! O meglio, l’ho scritto… E se siete ancora qui e non avete già premuto la x a destra del vostro Chrome, Firefox, Opera (mi auguro non Explorer), proverò a raccontarvi cosa penso a riguardo.

Il tema è estremamente importante, perché troppo spesso sentiamo parlare del nostro amico CRM solo come di uno strumento digitale capace di contenere ed intrecciare moli enormi di bit, un po’ come una versione avanzata di un Pokemon che lavora sui Database…

Sì, da un certo punto di vista è anche questo, chiaramente. E’ uno strumento analitico, operativo e strategico, che lavora con i dati dei vostri clienti (e potenziali). Ma prima di essere uno strumento, prima di essere una mera utilities che permette di effettuare analisi per ottimizzare valore, il CRM è un orientamento aziendale di lungo termine, che deve essere estremamente radicato all’interno di un business e deve abbattere le barriere che spesso si creano tra le varie unità aziendali (marketing contro sales, informatici contro legale, tutti contro l’amministrazione… scherzo ovviamente, siamo sempre tutti dalla parte dell’amministrazione).

Ad ogni modo, il Customer Relationship Management è un orientamento volto a raggiungere un vantaggio competitivo ragionevolmente sostenibile nel lungo termine.

Ok… torniamo un attimo indietro…

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Un Marketing che funziona…

Alcune evidenze

Un marketing che funziona, dovrebbe aiutare gli utenti a sceglierci come soluzione, come Brand, inserendosi in ogni fase del Journey, in ogni touchpoint.

Tenere attivo il cliente è un tema sempreverde, come sappiamo… e l’esperienza che vivo, il mio percorso come utente e poi cliente è quasi sempre il fattore differenziante.
Per questo è fondamentale che questo percorso sia presidiato in ogni fase, con ogni canale (che posso seguire dignitosamente), come ci racconta anche Avinash con il suo Framework di Marketing.

Le persone scelgono Brand, Prodotti e Servizi che permettono loro di vivere User Journey che si aspettano di vivere e le aspettative degli utenti sono cambiate e aumentate molto negli anni. Una ricerca di Salesforce (“State of the Connected Customer”, Salesforce Research), presentata anche da Andrea Buffoni durante il Web Marketing Festival 2019, ci mostra alcune evidenze estremamente interessanti in merito.

La ricerca racconta che per 8 consumatori su 10, l’esperienza che un brand fa vivere loro è importante tanto quanto il prodotto o servizio tout court… E questa cosa la viviamo tutti i giorni, pensate ad esempio ad Amazon (per citare solo il mio top of mind del momento): a me capita spesso di comprare da lui prodotti che potrei comprare direttamente dal venditore, risparmiando pure qualche quattrino (come diceva il mio prof. di Finanza). Però su Amazon trovo le recensioni aggiornate, ho la consegna gratuita e quasi istantanea e se c’è qualche problema con il mio ordine posso fare il reso con una semplicità disarmante (il reso, grande sconosciuto di una fetta grandissima di rivenditori purtroppo).

Quindi l’esperienza… guida l’acquisto!

79% of consumers say the experience a company provides is as important as its products and services

“State of the Connected Customer”, Salesforce Research

Sempre dalla stessa ricerca emerge che l’81% dei percorsi di acquisto passano da più canali; cosa non nuova, magari banale, ma sicuramente di interesse. E ci racconta poi che le persone, nel 67% dei casi, sono disposte a darci informazioni in più su di loro, se e solo se questo effort ha un ritorno in efficienza. Mi spiego meglio, io ti do i miei dati, se tu questi dati li usi… e li usi bene, ad esempio per farmi avere un servizio più veloce.

Ovviamente non dobbiamo esagerare e anzi magari dovremmo cercare di raccoglierli man mano perché, come avremo modo di vedere, alla gente non piace compilare campi e form, soprattutto a caso, soprattutto se ha la percezione che non siano utili, che non siano funzionali al suo fine.

La ratio è che dobbiamo chiedere i dati quando veramente servono, quando poi possiamo utilizzarli nel nostro piano di comunicazione, nel nostro contact plan. E’ inutile chiedere al mio utente/cliente la data del compleanno e se ha figli o meno, se poi questi dati non li uso, se poi non gli mando un coupon da riscattare al compleanno o un’offerta personalizzata o un plus in generale per i figli. Queste informazioni sono assolutamente inutili, se non ci agganciamo dei touchpoint.

Un’ultima evidenza che riporto ci dice che il 75% dei consumatori vogliono offerte più personalizzate e quindi, in sostanza, se ho un servizio sono più propenso a dare i miei dati, ma mi aspetto che vengano usati per personalizzare la mia esperienza.

L’utente è radicalmente cambiato…

Le aziende? Un pochino meno

A fronte di un utente in continua evoluzione da molti punti di vista, le aziende nella maggior parte dei casi sono rimaste un po’ statiche, ancorate spesso agli obiettivi di un tempo passato o ad orientamenti al marketing “superati”. Oltretutto, può capitare che abbiano subito delle forzate evoluzioni, rendendo complesso un business o un percorso per adeguarsi ai cambiamenti di contesto, frammentando l’esperienza dell’utente in diverse unit, su diversi e nuovi canali, con diversi team che la gestiscono.

Capita di avere un ufficio di comunicazione che non parla con il commerciale, che a sua volta non ingaggia il social media manager, che non si confronta con il contact center, che non parla con chi segue l’email marketing o la chat e via discorrendo.

Il risultato è che l’utente, il cliente, si accorge che la sua esperienza non è lineare, non è un continuum, ma che ci sono molti frammenti. Pensate anche a quante volte chiamate un Brand per parlare con l’assistenza e vi prende la chiamata una prima persona alla quale spiegate il problema dopo esservi presentati; la persona #1 non riesce a risolvere il problema e vi passa ad una persona #2, che non sa niente di voi e non sa come vi chiamate e che problema avete e, quindi, dovete presentarvi un’altra volta, spiegare il problema e sperare che la persona #2 non rimbalzi la chiamata a una persona #3, #4, #5 e via dicendo…
A me è capitato spesso devo dire, troppo spesso…

E in tutto questo dobbiamo fare i conti con i micromoments di Google: abbiamo bisogno di essere tempestivi, abbiamo bisogno di essere iper reattivi, perché il cliente non ha tempo di aspettare e se non rispondiamo si farà sentire sui social, magari in chiaro aprendo un topic negativo, o ancora con una brutta recensione online.

Il concetto è che un customer care fatto male può far perdere del margine (se ad esempio siamo produttori, ma il cliente sceglie di comprarci sull’Amazon di turno, al quale pagheremo una fee) o far perdere direttamente clienti se proprio non veniamo più scelti, con il connesso problema che il terreno che perdiamo noi lo sta conquistando un nostro competitor.

Alla radice di questi nefasti scenari c’è spesso l’essersi barricati su orientamenti obsoleti di marketing, o aver frainteso l’importanza di un CRM pensando che basti avere un tool, pensando che sia solo un software e non una strategia, un approccio al business e al cliente.

Nella prossima puntata di CRM, Don’t Call Me Software vedremo l’approccio al Marketing Relazionale e vedremo meglio cos’è il CRM (appena disponibile lo linkerò anche qui, promesso).

Reference

Qualche riferimento relativo all’articolo

Per i dati Salesforce Andrea Buffoni con “State of the Connected Customer”, Salesforce Research.

Per l’immagine in evidenza e a metà pagina, la fonte è Freepik, con chiave CRM e Business.

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